Società

Società Gio, 09/16/2021 - 12:37

Cannabis Legale: ne parliamo con Antonella Soldo e Michele Bottoni di MeglioLegale

Questa intervista solleva un tema che ovviamente divide la nostra società, poiché riflette sul rapporto fra libertà del singolo (come anche curarsi o fare impresa) e tutela della collettività. L’analisi svolta vuole mirare a un problema: il fatto che questa sostanza venga ormai tollerata in ampi strati della popolazione, soprattutto quella giovanile, e si riconosca il potenziale sia in ambito medico, che in ambito industriale, ma che allo stesso tempo soffra di uno stigma legale e in alcuni casi anche sociale, dovuto ad una generalizzazione tra “droghe pesanti” e “droghe leggere” del tutto controproducente in un dibattito costruttivo. La riduzione del danno, unita ad una regolamentazione della sostanza (come avviene anche per gli alcolici), consentirebbe da un lato la tutela del singolo cittadino, consumatore, paziente o imprenditore e dall’altro la protezione della comunità intera, poiché si andrebbe a rompere il legame tra società civile e criminalità. Inoltre ciò potrebbe essere un’alternativa all’approccio repressivo e alla narrazione proibizionista che all’attualità dei fatti ha creato solamente problemi che si riflettono sull’intero sistema.

Di questo e di molto altro abbiamo discusso con Antonella Soldo e Michele Bottoni, rispettivamente Project Manager e curatore Rassegna Stampa di Meglio Legale, un progetto che ha come obiettivo proprio il cambiamento di approccio riguardo alla cannabis:

Che cosa è Meglio Legale e come opera?

A.S.: Meglio legale è una campagna nazionale che mette insieme imprese, partiti, ricercatori, ma anche privati cittadini che si sono mossi e si sono interessati al mondo della cannabis per farne una rete di advocacy e di pressione pubblica sulle istituzioni. Si mira alla presentazione di una legge che abbia a che fare con la cannabis e i suoi vari campi di utilizzo (industriale, medico e ricreativo).

Per una realtà come Grosseto quali vantaggi si possono trarre dalla legalizzazione della cannabis in termini di sicurezza (sia del consumatore che della comunità)?

A.S.: In termini di sicurezza, aumenta la sicurezza nelle strade e parallelamente aumenta la possibilità di impresa che si incentra sull’agricoltura e sulla vendita al dettaglio. Nelle piccole realtà si deve puntare a combattere lo stigma  sociale che accompagna questo tema e che spesso fa molti più danni dello stesso consumo.

M.B.: Grosseto è una realtà rurale, nel quale sono nate tante imprese sia di coltivazione che di rivendita. Anche la stessa stigmatizzazione del consumatore di cannabis nella nostra zona è qualcosa che si sta andando a perdere di fronte ad una sostanza paragonata a tante altre (alcol, caffè e nicotina) che la nostra società ha metabolizzato da tempo. L’obiettivo fondamentale deve essere la rottura del legame tra il cittadino e la criminalità, organizzata e non, di modo da garantire la sua sicurezza come consumatore e cittadino.

La nostra società dimostra che un approccio repressivo non fa altro che accentuare il problema e crearne di nuovi. L’esperienza dimostra che nei Paesi in cui è avvenuto un qualche tipo di depenalizzazione o legalizzazione il consumo cala (esempi del Colorado e del Canada). Quanto è importante cambiare approccio e quale dovrebbe essere l’approccio della società a noi contemporanea?

M.B: Un cambiamento di approccio è fondamentale per restituire dignità ai pazienti che si devono curare con la cannabis; agli imprenditori, che in questo settore sono molto giovani, che hanno investito in questo settore; e infine ai consumatori che devono essere tutelati. Un approccio innovativo è stato trovato nella cosiddetta “riduzione del danno”: partendo dal presupposto che di droghe (tutte le droghe anche l’alcol, la nicotina ed il caffè) è un fenomeno che non può essere soffocato e represso, poiché storicamente il proibizionismo stimola l’effetto contrario. La riduzione del danno cerca di diminuire gli effetti negativi delle droghe, sui consumatori e sulla società e di concerto sostenere le persone che si trovano in una fase di dipendenza acuta. Uno degli strumenti principali della riduzione del danno è il progetto B.A.O.N.P.S. (Be Aware On Night Pleasure Safety). Il progetto consiste nell’offrire a chi frequenta luoghi in cui il consumo di sostanze è più comune (discoteche, locali notturni, etc.)un servizio di analisi delle sostanze che hanno con loro. In questo modo possono essere informali del contenuto di ciò che stanno effettivamente per assumere e i rischi che comporta. Inoltre possiamo identificare nuove sostanze psicoattive e comunicarle sia ai Sistemi di Allerta Precoce presenti nei singoli paesi partner dell’iniziativa che all’Early Warning System europeo. I dati dimostrano come gran parte dei consumatori, una volta consci di cosa stessero per assumere, hanno cambiato idea. 

A.S.: Oltre che per combattere la criminalità organizzata, un cambiamento di approccio è fondamentale per una vera guerra alla droga. Al momento ¼ dei carcerati per violazione del testo unico sulle Droghe sono tossicodipendenti, e la maggior parte di questi sono condannati per reati di piccolo spaccio. I grandi narcotrafficanti su un totale di 22. 000 condannati sono appena 900. In Italia non si conduce una vera guerra alla droga, basti pensare che il 94% dei sequestri riguarda la cannabis, si fa guerra ai ragazzi nelle scuole, agli imprenditori che investono e ai pazienti che si devono curare. La legalizzazione consentirebbe di utilizzare le risorse che vengono distratte nella lotta alla cannabis, oltre a combattere altri problemi sistemici come il sovraffollamento delle carceri, per contrastare il ricircolo di droghe sintetiche o “pesanti” che sono le vere sostanze di cui si deve temere l’utilizzo. 

Come si può aderire al progetto di Meglio Legale?

A.S.: Chiunque voglia dare una mano è ben accetto! Possono sostenere le nostre battaglie attraverso una donazione, partecipare ad i nostri dibattiti online, in attesa di tornare a farli fisicamente, oppure contattarci per organizzare un evento nella propria città. Dobbiamo cercare di aprire il dibattito su più fronti possibili, a tal fine abbiamo creato una rete di Meglio Legale Points. Al momento hanno aderito i tipi più disparati di attività dai Bar alle Toilette per cani, non solamente per gli addetti del settore. 

Leonardo Repola

Sabato 11 settembre 2021 è stata lanciata la raccolta firme per un referendum sulla cannabis, per firmare: https://referendumcannabis.it

Società Lun, 05/31/2021 - 11:33

Lo stigma del corpo grasso - Intervista a Francesca Tacconi (Grosseto, 1998)

 

Mi racconti la storia del tuo corpo?

Il riflesso nello specchio è qualcosa con cui tutti, prima o poi, siamo socialmente obbligati a fare i conti. Nello specifico, io ho iniziato a prendere consapevolezza del mio corpo a 15 anni, quando ho cominciato a guardarmi più accuratamente allo specchio e a confrontarmi con le mie coetanee. A 16 anni mi sono lasciata con il mio primo fidanzato dopo una storia adolescenziale particolarmente violenta. Ero devastata, credevo di non meritare di esistere e tutto ciò ha avuto pesanti ripercussioni sul mio corpo e sul rapporto con il cibo. A 17 anni mi viene diagnosticato un disturbo del comportamento alimentare: il disturbo da alimentazione incontrollata (Binge Eating Disorder o BED, in inglese). Inizio a prendere molto peso, fino a 20 kg in soli 8 mesi. Dopo un ricovero ospedaliero nel 2017 che non aveva avuto i risultati sperati, ho lasciato l’università per lavorare sul rapporto con il mio corpo e mi sono avventurata nell’ennesima dieta poco sana e sicura, che mi ha fatto perdere 10 kg. Ma non ci metto molto a riprendere, con gli interessi, tutti i kg che avevo perso. Esausta dell’effetto yo-yo (a cui sei inevitabilmente sottopostə dalla cultura della dieta), a gennaio 2019 scopro l’esistenza della chirurgia bariatrica e il 12 luglio 2019 mi sottopongo ad un intervento di bypass gastrico. L’intervento stravolge ancora di più il mio benessere psicofisico, i molteplici complimenti che ricevo per la perdita di peso non mi aiutano a stare meglio. Stavo vivendo un inferno, di cosa erano contenti?

Ad oggi ho perso 50 kg e trovato tante risposte. Il mio malessere esisteva per colpa di una società grassofobica che incita le persone a raggiungere ad ogni costo standard spesso irraggiungibili, che ripudia il grasso e chi ne ha, che umilia e discrimina, che spinge i corpi non conformi a sentire il bisogno di cambiare per ricevere rispetto. Rispetto che, però, tutti dovremmo meritare solo per il fatto di esistere.

 

Quali sono le forme di discriminazione che hai subito?

Un giorno d’estate mi stavo provando un costume intero. Una bambina di sì e no 4 anni mi vede dalla fessura della tenda del camerino e mi dice “che bella che sei”. Il padre la sente, mi guarda e la rimprovera dicendo “non glielo dire che sennò poi ci crede”. A settembre stavo camminando per le strade della mia città. Alcuni ragazzi mi passano accanto in macchina, abbassano il finestrino ed iniziano ad urlarmi “vacca di m***a, lo vuoi il mio panino?”, “No zitto che sennò mangia pure te”. A scuola durante un’interrogazione, quando il professore, stizzito dal fatto che non fossi preparata, dice “Francesca, se non sai rispondere a questa domanda ti faccio finalmente diventare magra una volta per tutte”. In un negozio la commessa mi ha detto “qui non ce le abbiamo le taglie per quelle come te”. A un colloquio di lavoro che mi premeva molto sono stata guardata con disgusto e rifiutata per il mio corpo. In un bar mi sono seduta sopra una sedia che non ha retto il mio peso: tutti si sono girati a guardarmi e a ridere, nessuno mi ha aiutata. Un membro della mia famiglia si vergognava ad uscire di casa con me, perché “tutti ti guardano”. Ho detto alla mia nutrizionista che il mio obiettivo non è più perdere peso ma ritrovare la serenità con il cibo e “ma come?! Potresti diventare magra e bella, perché fermarsi proprio ora?”. Era un giorno di febbraio, quando in classe entra un moscone, un compagno grida “guardate, è come Francesca, grassa e rompipalle!” ed iniziano le risate che tutt’ora non mi tolgo dalla testa. Questi sono solo alcuni esempi che ho elencato in un mio post. La lista è purtroppo molto lunga e comprende anche la difficoltà di trovare i vestiti della mia taglia, la mancata rappresentazione in film-serie tv e la convinzione dei medici che ogni mio malessere derivasse dal grasso.

 

Come sei riuscita a passare dal rifiuto all’accettazione del tuo corpo?

Sono sempre stata agguerrita nei confronti delle ingiustizie, ma solo quando riguardavano gli altri. Ero convinta di meritare il trattamento che gli altri mi riservavano, credevo fosse colpa mia. Nel processo di accettazione è stato fondamentale l’uso positivo dei social: ho smesso di seguire gli account che in qualche modo mi generavano malessere; ho ascoltato storie diverse dalla mia; grazie ai profili di attivistə ho iniziato a riconoscere le varie forme di discriminazione; mi sono avvicinata al femminismo intersezionale, alla Body Positivity e alla Fat Acceptance. Ho fatto pulizia anche nella vita reale, allontanando le presenze tossiche e ricercando ambienti più inclusivi. Dentro di me è iniziato un vero e proprio percorso di accettazione e crescita che è, tuttora, in continuo sviluppo.

 

Adesso anche tu fai attivismo sui social, come sta andando?

Non è sempre facile esporsi perché spesso il confronto non è rispettoso come vorrei. Ma penso alla me del passato e a quanto avrei avuto estremo bisogno di modelli positivi, parole inclusive e spunti di riflessione. L’attivismo è una forma di collaborazione capace di mettere in crisi i valori tradizionali: tutti possono fare attivismo semplicemente mettendo in discussione alcuni comportamenti socialmente accettati, ma in realtà tossici e discriminatori. Vorrei spingere le persone a farsi delle domande e se anche solo una persona, leggendo i miei post, inizierà a riflettere avrò collezionato una vittoria. 

 

Francesca Tacconi e Marta Carfì

 

Società Ven, 04/16/2021 - 15:32

Questioni di Genere

Questo è il primo di una serie di articoli che si propongono di affrontare volta per volta delle tematiche legate al genere e a femminismi. Ho deciso di scrivere questa rubrica non con la pretesa di poter aggiungere un contributo originale a una discussione già abbastanza prolifica, ma perché ritengo necessario che una consapevolezza dei rapporti di potere legati al genere pervada tanto il discorso pubblico quanto quello privato.  

La nostra associazione culturale, GROW, si propone di creare uno spazio, sia virtuale che reale, dove i giovani possano esprimersi e creare insieme: questo spazio deve essere inclusivo ed egualitario, ma per non correre il rischio di creare un’enclave chiusa ed autoreferenziale è necessario che sia chiaro cosa intendiamo quando parliamo di inclusività. Per esperienza e per passione, io parlerò di genere.

Prima di approdare a questi studi anche in ambito accademico, ho dovuto attraversare la gavetta che tocca ad ogni femminista: anni e anni di accese discussioni con amici, parenti, coinquilini e via dicendo. Una volta affrontate queste discussioni in un’aula universitaria, ho però iniziato a rendermi conto non solo dell’immensa distanza che separa il dibattito politico da quello accademico, ma anche di come il sentire comune si ponga in una peculiare posizione intermedia, di come gli impulsi teorici vengano presi e troppo spesso privati di significato dall’approccio superficiale dei social media a temi tanto complessi. Questo non è sempre vero, e si potrebbe obbiettare, trovandomi d’altronde d’accordo, che il fatto che questi temi vengano trattati è di per sé un passo avanti. Ciononostante è indubbio che la trasposizione commerciale del femminismo operata da Freeda, Lines o Netflix sia controversa e vada capita piuttosto che applaudita acriticamente. Ci troviamo in un’ epoca paradossale in cui da un lato le donne sono ancora svantaggiate e i più faticano a riconoscere l’estensione del problema o addirittura il problema in sé, e dall’altro la cultura pop veicola di continuo messaggi accattivanti come “we all should be feminist” o “all women are beautiful”. Come legare le due cose, come costruire un’eguaglianza sostenibile, che vada al di là della moda del momento e ponga le basi per un futuro realmente diverso, più eguale ed inclusivo? Innanzitutto dobbiamo conoscere la nostra arma, il femminismo, quali sono i concetti che usa per comprendere e poi cambiare la realtà e quali sono i fini per cui agisce. I fini ultimi sono abbastanza ovvi, ma è il patrimonio concettuale che si porta dietro che rende la comprensione delle sue battaglie potenzialmente ostica.

Esplorare il tema del femminismo è un’impresa titanica: partendo dallo studio della storia delle battaglie femministe, si deve poi accettare che esso non sia uno solo ed iniziare a parlare di femminismi. Infatti ogni donna non è solo una donna, ma la sua classe, il colore della sua pelle, il suo orientamento sessuale e tante altre caratteristiche determinano la sua identità e la sua posizione nel sistema di potere in cui ci muoviamo. Infine, bisogna capire perché il femminismo oggi non parla più solo di donne ed addentrarci nel concetto di genere. Mi rendo conto di quanto sia immensamente complicato da capire, di quanti termini e classificazioni si porti dietro, ma sono passaggi intermedi che vanno trattati, perché sono il tramite tra lo stato attuale delle cose ed il fine ultimo e ideale di una società egualitaria. Questo articolo si propone di essere un’introduzione a quelli che seguiranno, e mi sento quindi in dovere di spiegare quali sono i termini che userò. 

Con genere intendo l'identità di genere in cui ciascuno si riconosce, che è poi espressa attraverso quei ruoli che ricopriamo nella vita di tutti giorni. Tradizionalmente tendiamo a riconoscere il genere nella dicotomia uomo/donna, e i ruoli, i comportamenti, i modi di parlare e di essere legati a questi due generi sono tramandati e acquisiti per socializzazione. Ad esempio, una donna è tale innanzitutto perché si identifica in quanto donna, pensa a se stessa come donna, e lo esprime attraverso una serie di convenzioni, che vanno dai vestiti che porta a determinati tratti caratteriali. Il genere si differenzia dal sesso biologico assegnato alla nascita (maschio/femmina), e vive e si tramanda perché noi stessi lo accettiamo e lo performiamo giorno per giorno. Ciò non significa però che esso sia statico e immutabile: non sarà certo difficile riconoscere quanto gli attributi legati ai ruoli di genere siano cambiati nel tempo e cambino ancora tra le varie culture. Una volta riconosciuto questo, ci rendiamo conto che la dicotomia uomo/donna, sebbene sia abitualmente considerata come naturale, è in realtà una forzatura, e che il genere è piuttosto un continuum che lascia spazio ai più svariati modi di essere vissuto ed interpretato. Una cosa diversa è l’orientamento sessuale, che è un concetto relazionale e fa riferimento a coloro da cui siamo attratti. Certo è però che genere e sessualità sono interconnessi, e che la sessualità, intesa in termini di "eterosessualità obbligatoria", è sempre stata considerata un importante indicatore del genere. Per continuare con l’esempio precedente, si dà tendenzialmente per scontato che alla donna che pensa “io sono donna” piacciano uomini. Liberare il sentire comune da pesanti costrizioni culturali a proposito del genere significa liberare allo stesso modo la sessualità, e viceversa. Il cambiamento sociale che si potrebbe ottenere seguendo questa via è enorme: non si tratta solo di mettere in discussione i vestiti che portiamo, gli standard di bellezza che perseguiamo o i lavori a cui puntiamo, ma i valori stessi che sono stati finora dominanti, e che sono d’altro canto associati alla virilità. Parlo della competitività, modus operandi della nostra economia, di una politica incapace di riconoscere i propri errori e costruire su di essi, della violenza fisica e strutturale di un sistema che non vuole accettare le vie di mezzo.

Concludo però dicendo che, come ogni attivista, politico e persona dal minimo senso pratico sa, affrontare un tema tanto complesso equivale a dividerlo e affrontarne le varie componenti in ordine di urgenza. Ricordo di aver letto un’intervista ad un membro dell’ONU in cui questi ammetteva che i loro documenti usano un lessico datato nel parlare di problemi di genere, ma che ciò è necessario perché il rischio di smettere di parlare di donne è che le donne vengano dimenticate.  Ecco, riconoscere che il concetto di genere vada ripensato in toto non equivale a dimenticare che in questo sistema di potere di cui tutti soffrono alcuni sono più in basso di altri. 

È chiaro che non è questa la sede per sviscerare “il femminismo” o le teorie di genere, né tale è la mia ambizione: più umilmente, vorrei usare gli articoli che seguiranno per affrontare di volta in volta specifici argomenti legati alle tematiche di genere.

Sofia Vigetti