Intervista a Matteo Gobbo - CON.TATTO

Matteo Gobbo, 42 anni, è un pittore, scultore, fotografo e videomaker originario di Padova che cinque anni fa si è stabilito a Follonica e oggi vive a Grosseto.

Nella sua produzione artistica Matteo parte da un approccio spirituale e introspettivo: le sue fotografie, sculture e installazioni vogliono riflettere la sua sfera interiore e connetterla con la natura geometrica del mondo. Per questo predilige l’astrattismo ed esplora, attraverso le forme, l’essenza archetipica della materia.

Da dove viene il tuo interesse per l’arte?

Dalle mie esperienze di vita. Sono autodidatta e coltivo l’arte da sempre, ma solo negli ultimi anni ho trovato il tempo per farlo da professionista. Durante i miei viaggi in India e Thailandia ho visitato monasteri e scoperto la meditazione, che mi ha aiutato ad approfondire la mia parte creativa; infatti la mia ricerca artistica è sempre connessa alla ricerca personale, come due dimensioni parallele che si accrescono a vicenda.

Ho anche seguito dei corsi per tenermi aggiornato e sono iscritto alla scuola sperimentale Persistence Is All (PIA) di Lecce. Questa formazione mi serve a uscire dalla mia bolla, ma quando lavoro ho bisogno di non sentirmi influenzato dall’esterno, da teorie razionalizzanti o da ciò che va di moda tra gli artisti. La mia pratica richiede tranquillità con me stesso.

Ad esempio, oggi tutta l’arte è emotiva ma io non sono interessato a smuovere il nostro lato emozionale. Mi ispiro ai mantra, alla geometria sacra e al simbolismo religioso, per questo uso poco il colore e preferisco il bianco e nero, dove il bianco richiama la spiritualità.

Uno dei temi ricorrenti nei tuoi lavori è il silenzio. Come si può rappresentare il silenzio?

Lo si può vivere attraverso la meditazione, ma è indescrivibile, inafferrabile e nessuna rappresentazione lo può cogliere pienamente, ci possiamo solo avvicinare scavando in noi stessi e trovando uno spazio per coltivarlo.

È una tematica contraddittoria, che presuppone nessun gesto o movimento, perché la quiete non si può manifestare senza la fine del movimento. Nel mio lavoro il gesto diventa però pratica di silenzio, gioco conflittuale della percezione che cerca di raggiungere il silenzio.

Cosa presenterai al festival CON.TATTO?

Installerò due lavori nello spazio della chiesetta di Santa Barbara. All’esterno ci sarà “Il silenzio della madre”, un cordone ombelicale simbolo del rapporto madre-figlio, della dimensione umana e carnale del nutrimento che rimanda alla dimensione spirituale della vita che nutre l’uomo. Il cordone sarà in materiale organico, perciò dovrò riprodurlo sul posto.

All’interno proporrò un'installazione immersiva, "Intimacy Room", una composizione di pannelli "a crescere" con al centro una videoproiezione. Il tutto sarà integrato da dei piani sonori diffusi nella stanza, curati dal sound designer e artista Fausto Caricato. Questa fusione ricreerà una dimensione sospesa, intima e introspettiva. Credo che la chiesa sia lo spazio espositivo ideale, perché restituisce il senso di elevazione spirituale e distacco dalla materialità.

 Articolo di Michelangelo Gennaro