Intervista a Laurel Hauge - CON.TATTO

Laurel Hauge (Phoenix, Arizona 1994) è un’artista e scrittrice che vive e lavora a Milano. È stata inclusa in mostre collettive al Center for Book and Paper Arts di Chicago, alla Elizabeth Foundation for the Arts di New York e ha recentemente esposto nella seconda edizione di ReA! Art Fair a Milano. Nel 2020 si è tenuta la sua mostra personale a North Pole Exhibitions, Chicago. È co-fondatrice della casa editrice Have a Nice Day Press e i suoi scritti sono stati recentemente inclusi nelle pubblicazioni Color Tag Magazine, The Lab Review e SoapOpera Fanzine. 

Laurel espone I think about / all the things I could reach / before you, un’opera video che esplora la tematica delle relazioni a distanza utilizzando materiali collezionati su Google Earth.


RI: Nella descrizione dell’opera che presenterai al festival CON.TATTO hai scritto di essere stata influenzata dall’isolamento che hai sofferto quando vivevi a New York. In questa occasione l’arte ti ha fornito un mezzo per incanalare e trasformare lo stress e l’ansia?

 

LH: Penso di aver affrontato quelle emozioni negative attraverso la scrittura, componendo testi che si potrebbero definire poesie “sulla vita”.

Sviluppo spesso nuove idee scrivendo, prima di arrivare al risultato finale. Anche il progetto I think about / all the things I could reach / before you è nato in forma scritta, diventando poi una bandiera e più tardi ancora un video per North Pole Exhibitions.

 

RI: Sei a tuo agio con molti medium artistici, dalla poesia alla performance passando dalla video arte. Quali scrittori e artisti ti hanno influenzata?

 

LH: Per quanto riguarda scrittori e poeti direi che Raymond Carver, Dorothy Parker, Cormac McCarthy e Patrizia Cavalli hanno avuto un grande impatto su di me e sulla mia pratica artistica. Il tipo di scrittura verso cui mi muovo è spesso semplice ma viscerale, cosa che vale anche per la maggior parte degli artisti visivi che prediligo. Mi piacerebbe scrivere una poesia che riesca a trasmettere ciò che provo quando guardo o penso alle opere di Antoni Tàpies, Tania Pérez Córdova o Christopher Wilmarth.

 

RI: Per alcuni mesi i social media sono stati l’unico mezzo per comunicare con gli altri o per entrare in contatto con il mondo esterno. Questo ha rafforzato o indebolito il tuo rapporto con l’arte digitale?


LH: Sono stata molto felice di avere opere che potevo condividere facilmente tramite immagini o mostre online ma questi ultimi due anni hanno alimentato il mio desiderio di realizzare un numero maggiore di opere fisiche, che esistano al di fuori del mio hard drive. Per esempio i lavori che sto sviluppando adesso sono sculture, serigrafie, libri d’artista e performance. Credo fermamente nell’idea che un’opera d’arte non possa dirsi realizzata senza uno spettatore e che nulla possa sostituire l’esperienza di trovarsi in una stanza piena di opere, in dialogo fra di loro e con il fruitore, o in una stanza vuota in cui una sola installazione può richiedere tutta l’attenzione. Al contrario, negli spazi digitali è spesso difficile riuscire a ottenere un pieno coinvolgimento dello spettatore.

Articolo di Riccardo Innocenti