Questioni di Genere

Questo è il primo di una serie di articoli che si propongono di affrontare volta per volta delle tematiche legate al genere e a femminismi. Ho deciso di scrivere questa rubrica non con la pretesa di poter aggiungere un contributo originale a una discussione già abbastanza prolifica, ma perché ritengo necessario che una consapevolezza dei rapporti di potere legati al genere pervada tanto il discorso pubblico quanto quello privato.  

La nostra associazione culturale, GROW, si propone di creare uno spazio, sia virtuale che reale, dove i giovani possano esprimersi e creare insieme: questo spazio deve essere inclusivo ed egualitario, ma per non correre il rischio di creare un’enclave chiusa ed autoreferenziale è necessario che sia chiaro cosa intendiamo quando parliamo di inclusività. Per esperienza e per passione, io parlerò di genere.

Prima di approdare a questi studi anche in ambito accademico, ho dovuto attraversare la gavetta che tocca ad ogni femminista: anni e anni di accese discussioni con amici, parenti, coinquilini e via dicendo. Una volta affrontate queste discussioni in un’aula universitaria, ho però iniziato a rendermi conto non solo dell’immensa distanza che separa il dibattito politico da quello accademico, ma anche di come il sentire comune si ponga in una peculiare posizione intermedia, di come gli impulsi teorici vengano presi e troppo spesso privati di significato dall’approccio superficiale dei social media a temi tanto complessi. Questo non è sempre vero, e si potrebbe obbiettare, trovandomi d’altronde d’accordo, che il fatto che questi temi vengano trattati è di per sé un passo avanti. Ciononostante è indubbio che la trasposizione commerciale del femminismo operata da Freeda, Lines o Netflix sia controversa e vada capita piuttosto che applaudita acriticamente. Ci troviamo in un’ epoca paradossale in cui da un lato le donne sono ancora svantaggiate e i più faticano a riconoscere l’estensione del problema o addirittura il problema in sé, e dall’altro la cultura pop veicola di continuo messaggi accattivanti come “we all should be feminist” o “all women are beautiful”. Come legare le due cose, come costruire un’eguaglianza sostenibile, che vada al di là della moda del momento e ponga le basi per un futuro realmente diverso, più eguale ed inclusivo? Innanzitutto dobbiamo conoscere la nostra arma, il femminismo, quali sono i concetti che usa per comprendere e poi cambiare la realtà e quali sono i fini per cui agisce. I fini ultimi sono abbastanza ovvi, ma è il patrimonio concettuale che si porta dietro che rende la comprensione delle sue battaglie potenzialmente ostica.

Esplorare il tema del femminismo è un’impresa titanica: partendo dallo studio della storia delle battaglie femministe, si deve poi accettare che esso non sia uno solo ed iniziare a parlare di femminismi. Infatti ogni donna non è solo una donna, ma la sua classe, il colore della sua pelle, il suo orientamento sessuale e tante altre caratteristiche determinano la sua identità e la sua posizione nel sistema di potere in cui ci muoviamo. Infine, bisogna capire perché il femminismo oggi non parla più solo di donne ed addentrarci nel concetto di genere. Mi rendo conto di quanto sia immensamente complicato da capire, di quanti termini e classificazioni si porti dietro, ma sono passaggi intermedi che vanno trattati, perché sono il tramite tra lo stato attuale delle cose ed il fine ultimo e ideale di una società egualitaria. Questo articolo si propone di essere un’introduzione a quelli che seguiranno, e mi sento quindi in dovere di spiegare quali sono i termini che userò. 

Con genere intendo l'identità di genere in cui ciascuno si riconosce, che è poi espressa attraverso quei ruoli che ricopriamo nella vita di tutti giorni. Tradizionalmente tendiamo a riconoscere il genere nella dicotomia uomo/donna, e i ruoli, i comportamenti, i modi di parlare e di essere legati a questi due generi sono tramandati e acquisiti per socializzazione. Ad esempio, una donna è tale innanzitutto perché si identifica in quanto donna, pensa a se stessa come donna, e lo esprime attraverso una serie di convenzioni, che vanno dai vestiti che porta a determinati tratti caratteriali. Il genere si differenzia dal sesso biologico assegnato alla nascita (maschio/femmina), e vive e si tramanda perché noi stessi lo accettiamo e lo performiamo giorno per giorno. Ciò non significa però che esso sia statico e immutabile: non sarà certo difficile riconoscere quanto gli attributi legati ai ruoli di genere siano cambiati nel tempo e cambino ancora tra le varie culture. Una volta riconosciuto questo, ci rendiamo conto che la dicotomia uomo/donna, sebbene sia abitualmente considerata come naturale, è in realtà una forzatura, e che il genere è piuttosto un continuum che lascia spazio ai più svariati modi di essere vissuto ed interpretato. Una cosa diversa è l’orientamento sessuale, che è un concetto relazionale e fa riferimento a coloro da cui siamo attratti. Certo è però che genere e sessualità sono interconnessi, e che la sessualità, intesa in termini di "eterosessualità obbligatoria", è sempre stata considerata un importante indicatore del genere. Per continuare con l’esempio precedente, si dà tendenzialmente per scontato che alla donna che pensa “io sono donna” piacciano uomini. Liberare il sentire comune da pesanti costrizioni culturali a proposito del genere significa liberare allo stesso modo la sessualità, e viceversa. Il cambiamento sociale che si potrebbe ottenere seguendo questa via è enorme: non si tratta solo di mettere in discussione i vestiti che portiamo, gli standard di bellezza che perseguiamo o i lavori a cui puntiamo, ma i valori stessi che sono stati finora dominanti, e che sono d’altro canto associati alla virilità. Parlo della competitività, modus operandi della nostra economia, di una politica incapace di riconoscere i propri errori e costruire su di essi, della violenza fisica e strutturale di un sistema che non vuole accettare le vie di mezzo.

Concludo però dicendo che, come ogni attivista, politico e persona dal minimo senso pratico sa, affrontare un tema tanto complesso equivale a dividerlo e affrontarne le varie componenti in ordine di urgenza. Ricordo di aver letto un’intervista ad un membro dell’ONU in cui questi ammetteva che i loro documenti usano un lessico datato nel parlare di problemi di genere, ma che ciò è necessario perché il rischio di smettere di parlare di donne è che le donne vengano dimenticate.  Ecco, riconoscere che il concetto di genere vada ripensato in toto non equivale a dimenticare che in questo sistema di potere di cui tutti soffrono alcuni sono più in basso di altri. 

È chiaro che non è questa la sede per sviscerare “il femminismo” o le teorie di genere, né tale è la mia ambizione: più umilmente, vorrei usare gli articoli che seguiranno per affrontare di volta in volta specifici argomenti legati alle tematiche di genere.

Sofia Vigetti